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Nell’attuale congiuntura storica, a partire dagli anni ottanta, è già luogo comune affermare che le relazioni sociali sono determinate e disciplinate dalle regole neocapitalistiche di organizzazione e dai rapporti di forza che ne conseguono; e ciò sia a livello locale che globale. Un po’ meno ovvio è condurre alle estreme conseguenze i presupposti teorici che ne informano la prassi, annidati come sono nel nucleo libertario del pensiero liberal-liberista che fin dalle origini ne costituisce la cornice ideologica di riferimento.
Credo che nessun individuo dotato di buon senso possa contestare il principio secondo cui la libertà individuale sia un valore inalienabile ed inviolabile e che, fatti salvi i limiti legislativi i quali teoricamente sono l’emanazione di un “contratto sociale”, nessuna autorità sia legittimata a violare l’autodeterminazione soggettiva. In altri termini, nelle società a base costituzionale, sembra un dato antropologicamente acquisito che l’individuo debba e possa esercitare il proprio diritto alla libertà personale come diritto ontologico di nascita e di specie, così come lo si è concepito ed affermato fin dagli albori del giusnaturalismo. Quindi, prima di una libertà socialmente garantita, esiste una libertà naturale del soggetto e di conseguenza due forme di responsabilità personale: una primaria responsabilità naturale ed una secondaria responsabilità sociale. In uno stato di natura non è contemplato che l’esercizio della prima (con la sola esclusione dei rapporti parentali stretti, vale a dire la cura genitoriale in funzione dell’allevamento dei piccoli), cioé ciascuno deve provvedere da sé per i propri bisogni, traendo necessariamente dal mondo le risorse per sopravvivere; quindi da una parte il mondo come unico ambiente di esistenza e dall’altra il soggetto sottoposto alla spinta compulsiva della coazione a vivere. Da questo punto di vista, un individuo che strumentalizzi utilitaristicamente il mondo, non sta che mettendo in atto un imperativo biologico, un programma naturale e filogenetico che non consente alcuna forma di trascendenza, pena la scomparsa fisica dell’individuo stesso. Allora, che tutti gli uomini singolarmente debbano provvedere ai bisogni personali, è una regola che non ammette eccezioni, che implica un riconoscimento universale e nessuna trattativa, per una semplicissima, ovvia ragione: la posta in gioco della vita. Ammettere che tale regola possa non valere per qualcuno, significherebbe privarlo del diritto alla vita (dal momento che è nato) ed accettarne gli unici sbocchi possibili: l’esclusione, l’estinzione, la morte.
Se si riconosce una qualche forma di legittimità alla responsabilità naturale che ogni individuo ha nei confronti di se stesso, non si può non prestare la giusta attenzione per le condizioni oggettive e materiali che la rendono esercitabile di fatto, non si può escludere in nessun modo l’evidenza che l’essere umano vive in simbiosi necessaria con il mondo e con una sua condizione essenziale: la disponibilità dei suoi oggetti pragmatici quali il suolo, l’acqua, il cibo, lo spazio di vita. Ed è proprio a questo livello di discorso che capitalismo, liberalismo, liberismo (i mantra ossessivi dell’età contemporanea globalizzata) mostrano la loro crisi di razionalità, e per una ragione elementare: in quale modo diventa possibile esercitare il diritto alla vita e la responsabilità naturale se le disponibilità del mondo vengono privatizzate? E in un mondo privatizzato, quali possibilità ha il soggetto di provvedere alla salvaguardia primaria di se stesso?
Questa non vuole essere l’ennesima critica politica al nucleo idelogico più ostico del capitalismo –la proprietà privata– ma semplicemente una considerazione riflessiva di buon senso, partendo dal semplice presupposto che un mondo privatizzato non lascerebbe all’individuo che ben poche alternative: -riconoscere all’occupante di detenere per sé lo spazio che si è costruito; -rivolgersi allo spazio ancora disponibile (se dovesse essercene ancora); -accordarsi con l’occupante sull’uso di una parte contro un corrispettivo concordato; -invasione dello spazio occupato; -o infine prendere atto dell’assenza di possibilità, percepirsi di troppo e quindi soccombere e scomparire, sulla base dell’idea che nello stato di natura non è prevista alcuna responsabilità sociale, e cioé l’assunzione nella propria sfera esistenziale del destino dell’Altro. Tuttavia, in considerazione di quest’ultima evenienza -l’autoesclusione, l’autosoppressione- e sempre in una prospettiva naturale, non può nemmeno essere una condizione normativa quella secondo cui chi, non avendo un suo spazio operativo, chi sia impossibilitato all’esercizio della responsabilità naturale, debba poi essere vincolato all’osservanza della responsabilità sociale, cioé al rispetto delle regole della convivenza civilizzata. Richiederlo sarebbe un pronunciamento di sentenza di morte fisica e/o civile a carico del deprivato, e la privatizzazione del mondo è in sostanza una sentenza di tal genere; ed è per tale ragione, è per neutralizzare la carica rivoluzionaria dell’istinto di vita che l’organizzazione capitalistica dei rapporti sociali passa sempre più dalla condivisione all’imposizione e alla repressione, o peggio ancora all’hobbesiano “bellum omnium contra omnes” (guerra di tutti contro tutti).
Di fatto la tesi di questa riflessione è che la logica capitalistica, lungi dall’aver scardinato le coazioni pulsionali arcaiche dello stato di natura, ne ha perpetuato la permanenza occultandola dietro la superficie formale della modernità e addirittura della postmodernità, restando così radicata nel sostrato conflittuale dell’hobbesiano “homo homini lupus” che sembra essere lo slogan non dichiarato dell’agire contemporaneo globalizzato.
E’ innegabile che la dimensione naturale sia la condizione primaria di ogni nato, ma secoli di sviluppo culturale ed antropologico hanno fatto acquisire che la specificità dell’homo non è quella dell’iniziale logica della foresta e del branco bensì il suo superamento attraverso la maturazione della dimensione umana, dimensione che l’ideologia liberal-capitalista sembra non in grado di poter determinare. Di fatto il salto tecnologico che ne connota lo sviluppo, non corrisponde ad un salto di qualità antropologica, l’unica che produrrebbe nella realtà il prodursi di un’altra Storia. Al contrario, la semplice constatazione fenomenica indica che proprio l’imperio della logica capitalistica presente, il suo sviluppo globale e planetario, sta conducendo a forme regressive ed anacronistiche di dominio ed egemonia castuale, a intollerabili forme di strisciante e darwinistica selezione naturale, pur se la parola libertà compare ossessivamente nel suo vocabolario solo formalmente liberale.
Ma in definitiva, al di là delle possibili concettualizzazioni specialistiche, cosa mai potrebbe essere questa dimensione umana? cosa potrebbe significare l’aver acquisito un livello umano di esistenza? Volendo intenzionalmente rimanere all’interno di un quadro di riferimento di senso comune, semplicemente si potrebbe rispondere: un connubio felice fra testa e cuore; una intelligente capacità d’amore; la capacità di restare ancorati a tutto ciò che di bello e di buono si è ad oggi stati capaci di concepire; è la volontà razionale di non nuocere (se pur si è incapaci di amore per il prossimo); è la resistenza a vincere e superare l’istintuale pulsione di dominio; è il ritorno in orrore al cospetto di una reificazione dell’Altro programmata e messa in atto scientificamente; è il considerare le risorse della Terra come proprietà universale e non come oggetto di appropriazione privata esponenziale ed illimitata. E ancora si potrebbe aggiungere persino un’ ipotesi di imperativo morale: che nessun uomo consideri sue, se non la sua stessa vita e qualsiasi cosa che necessariamente concorra a conservarla nei modi e nel senso della dignità umana.
Si è assolutamente consapevoli della marea di obiezioni che potrebbero scatenarsi sulla scorta di un’obesità culturale fatta di liberalità nominale e sostanziale difesa del “frutto del proprio lavoro”, ma è anche lapalissiano che quando intelligenza e abilità sono concepite e vissute in funzione narcisistica autoaccrescitiva e non anche come servizio sociale, il risultato non può essere che l’attuale stato di cose, l’alternanza fra sfruttamento ed esclusione, la rimozione della colpa della sovrabbondanza dei pochi nel confronto con la carenza di massa, la miseria diffusa, la disperazione sociale, il conflitto globale. Cioé il Mondo delle logiche d’impresa, della volubilità dei mercati, delle fluttuazioni cicliche, della produzione esponenziale e del consumo ossessivo, delle guerre per l’accaparramento delle risorse e del costo lavoro più schiavistico… Cioé il Mondo del capitale.
Francesco Palmieri
Nota: Testo pubblicato la prima volta su questo sito il 16 Ott 2014