Introduzione
Ogni essere umano prima o poi, nell’arco della sua vita, dovrà fare i conti con la sofferenza. Detto così può sembrare un triste ed inevitabile destino dell’umanità, in realtà è tutto proporzionato alle caratteristiche uniche dell’uomo. Egli infatti sa amare in maniera gratuita per tutta la sua esistenza, sa costruire prodigi tecnologici, sa essere irripetibile e pertanto appare chiaro come il risvolto della medaglia sia una maggiore percezione di ciò che gli è avverso. Ovviamente laddove parliamo di sofferenza fisica, non solo l’uomo ma ogni essere vivente (pianta o animale) dimostra a suo modo di poter soffrire. L’uomo però va oltre, ed è qui che mi soffermerò grazie all’ausilio del testo sapienziale di Giobbe. La sofferenza, come detto poc’anzi, produce inspiegabili sensazioni nell’uomo e soprattutto una serie di grandi quesiti che spesso egli rivolge più o meno violentemente a Dio e che possiamo riassumere tutto sommato in una domanda: cosa ho fatto per meritare questo?
Il testo di Giobbe risulta un emblema di fede e di pazienza sul tema della sofferenza del giusto che viene perseguitato. Giobbe, però, non è soltanto il modello del vero credente, ma anche di colui che tenta di ribellarsi a Dio trascinandolo in giudizio per poi tacere di fronte alla sua magnificenza. Egli, quindi, ha i tratti di una vera e propria icona.
La vita
Giobbe aveva trascorso la sua vita per molti anni in modo compiuto, guidato da valori quali la giustizia, la saggezza, la bontà e l’onorabilità della famiglia. Godeva anche dei sufficienti bene materiali, era ricco. Da questa situazione prosperosa passa ad una ben più complessa e rovinosa nella quale tutto ciò che possedeva, in termini materiali e non, gli viene a mancare. A questa situazione si aggiunge anche una salute malferma. Raccontata in questi termini la vicenda di Giobbe appare per quello che è; estremamente semplice e lineare. Il pathos che si percepisce in questa storia è alla base della volontà dell’autore, forse anche per esperienze del tutto personali. L’antefatto, che ho volontariamente omesso inizialmente, è il dialogo tra Dio e Satana. Giobbe, difatti, viene colpito da Satana con il permesso di Dio. Ciò accade, secondo il testo, poiché Dio crede fermamente, a differenza di Lucifero, che Giobbe avrà fede anche quando il benessere non busserà più alla sua porta. Da questo momento Giobbe inizierà un percorso, un calvario, che lo porterà ad amare Dio anche se i suoi amici, e perfino sua moglie, cercheranno di dissuaderlo. Di base essi sosterranno ripetutamente che Dio punisce Giobbe per via della sua empietà. Quando la malattia lo colpirà la sua consorte esclamerà: «Allora sua moglie gli disse: Rimani ancora fermo nella tua integrità? Maledici Dio e muori! Ma egli rispose: Parli come un’insensata! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?»[1].
Queste voci, che ripetutamente lo ostacolano basandosi ovviamente sulle condizioni in cui versa Giobbe, gli procureranno parecchio dolore ed una crescente protesta nei confronti di Dio. Difatti egli sa di essere nel giusto e cerca a tutti i costi Dio, urla per ottenere la sua attenzione: «Io grido a te e tu non mi rispondi; mi presento e tu non badi a me. Ti sei fatto crudele con me e mi perseguiti con tutta la forza del tuo braccio. […] Mi aspettavo la felicità e venne la sventura; aspettavo la luce e venne il buio»[2]. Solo alla fine saprà scegliere l’accettazione, convivendo con la prova a cui è stato sottoposto. Solo in questo modo riacquisterà la pace e la tranquillità interiore. Non è un caso che se a questo punto il dolore di Giobbe cessa, per la sua fede, Dio, gli restituirà il doppio di tutto quello che egli aveva perduto. Questa soluzione mostra una visione retributiva ancora acerba, il che getta luce su una possibile datazione dell’opera. Difatti quello che Giobbe spera, che desidera, che ottiene è ancora legato al tempo e alla spazio. Non c’è traccia di una credenza di tipo spirituale, la quale inizierà ad affermarsi solamente nel II secolo a.C. Ciò che a noi risulta utile, però, è l’estrema efficacia del testo che racconta una storia incredibilmente attuale, nonostante siano passati molti secoli dalla data di composizione. Al tema del dolore l’uomo può dare due possibili spiegazioni: identificarlo come risposta di Dio rispetto ai propri peccati (il che fa pensare ad un Dio vendicativo), oppure accettarlo come progetto di Dio e quindi come esperienza in fieri che mostrerà il suo volto solo quando sarà giunto il tempo in cui essa potrà farlo. Non c’è dubbio che la seconda possibilità risulta essere la meno banale e di certo la più corretta. Non c’è spiegazione che l’intelletto umano possa dare al dolore se non la fede in Dio.
Icona del dolore umano
Personalmente ritengo che questo testo abbia un grandissimo valore non solo per ebrei e cristiani. Ha una validità universale e sa donare sollievo al cuore di chi lo legge, a maggior ragione se ha già provato quello che viene narrato. Proprio come scrive Costa: «Giobbe ripercorre, quasi bestemmiando, le lamentazioni di ogni uomo: se Dio vuole eliminare il dolore ma non può, allora è contemporaneamente debole e nemico; se vuole e può, perché non agisce?»[3]. La risposta a queste domande va ricercata nell’incontro diretto e relazionale con Dio. Non si tratta certo di pazientare, una situazione che spesso è sinonimo di abbattimento dello spirito e quindi anche del corpo. Una sorta di attesa infinita verso quello che è un destino incontrovertibile e che senza nessuna spiegazione ci è toccato. Non è così che Giobbe risponde al dolore, anzi. Giobbe non si lascerà mai atterrare dalla sua condizione, lotterà fino alla fine per cercare di capire il perché. Non posso dire che egli riuscirà a dare una risposta al perché del dolore, di certo però posso dire che egli mostrerà entrambe le strade che l’umanità può percorrere in tal senso. Non è un caso che dopo un lungo peregrinare, egli capisca che è nella comunione con Dio la possibilità di superare la tragicità del problema.
Un viaggio doloroso, non c’è dubbio, ma del tutto nuovo e che parla di fede ritrovata, o rinnovata, di accoglienza di Dio nel proprio cuore, di comprensione di sé e degli altri. Quante volte ci capita di vedere situazioni tragiche o di sentirne parlare. Se le situazioni non colpiscono la nostra vita ci sentiamo quasi refrattari ad ogni sentimento di partecipazione verso il dolore altrui. Questo è un vizio prettamente umano, ma non per questo è impossibile toglierlo dalla nostra cultura. Curarsi degli altri significa anche ringraziare Dio per quello che ci ha dato e restituirgli una piccolissima parte dell’immenso dono di cui ci ha fatto carico: l’amore. Può sembrare strano utilizzare questo termine laddove si discute l’essenza del dolore. Ritengo però che il libro di Giobbe dimostri proprio questo, l’amore incondizionato, la fede in altri termini, nei confronti di Dio. Il messaggio appare chiaro: il dolore può aiutare a conoscere il vero volto di Dio, ma anche quello dell’uomo. Ho esordito parlando dell’universalità del dolore nella vita umana, voglio concludere allo stesso modo citando Ugo Foscolo: «Ora sto rileggendo e copiando in un libricino tutto il Libro di Job: lo trascrivo col testo greco e latino; vorrei pur sapere di Caldeo e di Ebreo! Sublime libro! Come è pieno di grande e magnanimo dolore! Come parla con Dio senza superstizione, e con le proprie sciagure senza bassezza! L’uomo sciagurato contempla con certa malinconica compiacenza le tempeste della sua vita: le passioni sono più consolate in quella effusione di amarezza e di querele che in tutte le gloriose sentenze di Epitteto. Sublime libro!»[4].
Roberto Pavone
[1] Cfr. Gb 2, 9-10.
[2] Cfr. Gb 30, 22ss.
[3] Costa Giuseppe, L’icona biblica di Giobbe – Dall’accettazione paziente, attraverso il grido sofferente e inquisitorio, fino all’appassionata e trasfigurante ricerca di Dio, in “Itinerarium”, n. 15, 2007, p. 40.
[4] Foscolo Ugo, Epistolario – Edizione nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, vol. XV, Mondadori, Milano 1970, p. 345.
un gran bel post, quando mi sono trovato nella situazione di sofferenza anche io ho preso in mano questo testo e mi ha dato fiducia e conforto. Credo che il pregio di Giobbe sia il suo abbandono alla divina provvidenza ma ai nostri giorni dire queste cose passi per “uno fuori”.
“La risposta a queste domande va ricercata nell’incontro diretto e relazionale con Dio” ecco forse dovremmo viverlo così il Natale.
La sofferenza, il dolore, si vivono in solitudine e silenzio e si metabolizzano con criteri talmente personali che un qualsiasi commento al tuo scritto rischia di diventare banale; di certo Dio non paga il 27!
Per rimanere in tema pasoliniano, anche la sofferenza è uno scandalo.
Per chi crede lo scandalo di dio, per chi non crede lo scandalo della natura, eppure in questo scandalo l’uomo conosce realmente se stesso e il vero amore di chi lo circonda.
Giobbe ha avuto la doppia sfiga di moglie ed amici ipocriti, ingiusti e se dovessi sforzarmi di definirli direi miserabili 😉
Secondo me senza dolore non c’è vita
Oggi e secoli fa, i soliti dubbi, le solite paure e le solite domande a Dio. Mi ha fatto sempre girare la testa questo racconto. Sono convinta anche io che senza dolore non avremmo modo di conoscersi veramente. Indipendentemente dalle conclusioni a cui arriviamo, solo il dolore ci fa tirare fuori quello in cui crediamo, fino in fondo.
Bellissimo post, in un momento veramente appropriato.
Buon Natale!