Come pietre e ghiaia nel letto di un torrente, il caso, le scelte, la progettualità, variano il corso del nostro divenire: tratti in cui l’acqua scorre limpida, a volte calma, altre impetuosa per il contrasto con i massi, altre ancora vorticando in mulinelli che ne trattengono il fluire. Non siamo mai uguali a ciò che eravamo: siamo permeabili al sogno, al ricordo e all’attesa.
Nel fluire della nostro personale racconto, ci capita di bagnarci in acque agitate in cui si rispecchia l’immagine che reca in sé il nostro significare e si riverbera in giochi di luce ed ombra la forma incompiuta della nostra creazione. Nel momento in cui ci incontriamo soggetti della narrazione, dell’espressione, non solo scritta, che supera, trascende e non misconosce il quotidiano, creiamo noi stessi. Sullo sfondo scorgiamo reti di relazioni su cui si staglia il momento del nostro inizio. Sempre ripetibile, costantemente rinnovabile, slegato dal procedere del tempo, l’inizio è facoltà in cui ci rinnoviamo e diamo origine al nuovo che ci rigenera, alla diversità che segue l’affrancamento dal consueto[1].
L’inizio punta lo sguardo su una destinazione, ma le nostre mete sono sempre meno raggiungibili a causa della complessità in cui siamo immersi, della miseria generata dalla confusione storica ed esistenziale che si protrae da anni. Il sogno che apre a luoghi futuri in cui la nostra narrazione assurga allo stato celebrativo del lieto fine sembra ormai una prova di incosciente ottimismo per chi non vuole arrendersi. Per altri tutto è rivestito di cinismo e scetticismo a formare conglomerati di biasimi, invettive e rimostranze gettati in un mare di superficialità per attirare attenzione e suscitare clamore. Ne nascono narrazioni boriose, ma disperse, frantumate che intrattengono solo con rimandi, note a margine e glosse lontane dal luogo d’origine degli eventi, lontane dal vissuto. Il respiro si accorcia, lo spazio per dar luogo all’inizio si restringe, la parola perde la sublimità del logos e la comprensione viene sviata a corollario di monologhi egocentrici. La capacità di immedesimarci nelle narrazioni altrui, di incontrare l’io-in-divenire si è fatta rara : la narrazione è pubblica, collettiva, ma non corale, e raramente dialogica: il parlante offre una comunicazione asincrona e decontestualizzata e l’ ascoltatore, estromesso dal poligono corpo-mente-cuore, è escluso dall’interlocuzione.
La sensazione è che stiamo percorrendo il nostro tempo con scarsità di mezzi e che abbiamo finito per accontentarci di una rassicurante visione che invita a comodi approdi. Gli orizzonti troppo vicini, a volte angusti, molteplici, ripetitivi, precari e disorientanti, vissuti nello spazio urbano e urbanizzato, ci destabilizzano ancora, e quindi li sostituiamo volgendo tutti lo sguardo in una stessa direzione, distante quanto un miraggio, risucchiati in linguaggi veementi o seducenti che interloquiscono con aspirazioni indifferenziate volte a rassicurare io-in-divenire desiderosi di mantenersi saldi, pervicacemente aggrappati a sicurezze residue, intangibili ai mutamenti. Evitata, schivata, “la vertigine del moderno”[2], è terminato anche l’atto di errare. E così la prossimità, il gusto di girovagare, la capacità di scoprire toccando con mano, l’ardire di chiedere, di condividere stralci di umanità dialogando con l’altro, rischiano di restare sottotraccia.
Spazio urbano e spazio urbanizzato sono ormai da tempo categorie del pensiero, generano figure che non ci sorprendono più; quello che ci turba, ci crea sconcerto, ci invita alla riflessione, è l’uso che se ne fa, il modo di vivere questi spazi, la paura dell’invasione di questi luoghi percepiti come chiusi, ristretti. Ce ne siamo andati, siamo approdati ad un altro spazio, l’ambiente digitale, ma lo spazio urbano si è riversato in esso come un codice, una chiave di lettura. La mancanza di reciprocità degli sguardi non nasce oggi con l’uso di dispositivi digitali sempre più sofisticati, le sue cause non stanno nella diffusione della tecnologia, ma piuttosto è vero il contrario: la tecnologia risponde a un bisogno di pienezza, all’esigenza di presenza che si fa prorompente ed emerge dopo che si è cercato di affondarla per crogiolarsi nell’illusione che la massima aspirazione che si possa avere sia quella di adeguarsi a far parte di una oleografia già delineata. Gli ambienti digitali offrono surrogati di contatto, scambi di linguaggi che intersecano, ma non comprendono la presenza degli interlocutori: siamo distanti, distanti dall’altro e distanti dal nostro centro. Solo abitare il nostro centro, immergerci nel nostro sé profondo, senza coincidere con esso, può affrancarci dalla seduzione di orizzonti di maniera, può permetterci di uscirne e di decentrarci, aprire varchi al pensiero dell’Altro e al reciproco riconoscimento
Il decentramento è il viaggio che conduce alla capacità di pensare l’Altro, colui che non solo è diverso da me, ma colui che non è me e colui per il quale io non sono il suo sé. L’incontro si avvera in una rivoluzione del quotidiano in cui avvengono e si collocano vicissitudini ed esperienze, fenomeni ed eventi, che assumono un significato completamente e sempre nuovo di dono reciproco: avviene la gratuità che crea il Noi, la gratuità che dà luogo all’inizio, che sovverte le priorità dell’orizzonte di conforto che ci è stato mostrato, e trasforma la vita. Chi vi accede non si cura del miraggio di una visione ingannevole, ma crea un proprio orizzonte di senso fondato sulla condivisione e sull’abitazione dello spazio dell’Altro che accoglie in reciprocità. L’identità non è più assegnata dell’esterno, non solca più rotte prestabilite, ma viene narrata e riconosciuta contemporaneamente al donarsi, si vede negli occhi e nei gesti dell’Altro, in essa la goccia è metonimia del mare, l’attimo dell’eterno. La figura che ci traghetta al decentramento non è più la similitudine, ma la metafora, permeabile al sogno e all’attesa, luogo dell’oltre.
Ho attinto barlumi di stelle
In acqua di pozzo,
E misurato costrutti d’essere
Su spigoli di pietre angolari
Ora vedo
L’oltre dei miei gesti
E dei tuoi sguardi
Quel divenire presente all’essenza
Che apre l’attimo all’eterno.
Cristina Polli
[1] Agostino di Ippona parla di “capacità di inizio” trattando del libero arbitrio e Hannah Arendt, interprete del pensiero di Agostino, elabora per esso la categoria della natalità. Per quanto riguarda la narrazione come riconoscimento del sé, credo che si possa parlare di inizio in vari punti cruciali, non solo nell’incipit.
[2] Franco Rella in Miti e figure del moderno, Feltrinelli, 1981 e 1993, introduce in varie pagine il tema della vertigine e dedica ad esso l’intero capitolo IV. Penso che la “vertigine” da categoria delle avanguardie che aprono a un pensiero diverso, oggi sia confluita nell’esistente quotidiano e si manifesti in varie forme di angoscia legate alla precarietà. Riprenderei la similitudine usata da Kafka, che Rella riporta a pag. 24 , “… mal di mare in terraferma” come indicatore di approdi travagliati e di sradicamenti globali di popoli e persone.
Grazie Cristina, con la tua scrittura hai arricchito le nostre pagine di quella speciale bellezza da cui ci si lascia felicemente guidare ovunque ci voglia condurre (… oltre).
A presto leggerti! 🙂