Vorrei partire dal teatro per riflettere sul potere della parola. Il teatro è “azione”. Agire in teatro non equivale a “fare qualcosa”, non equivale a “muoversi” su di un palco, ma significa piuttosto “muovere qualcosa” e precisamente muovere l’anima dello spettatore, muovere il pensiero dello spettatore, muovere la sua immaginazione, la sua emozione. Partendo da questi presupposti, è chiaro che anche la “parola”, e non solo il movimento scenico, può essere azione quando non si limita ad essere flatus vocis. Anche la parola ha il suo movimento intrinseco, anche la parola può occupare lo spazio scenico e ha in sé la potenzialità di muovere qualcosa nell’altro. Non è un caso, che in tutti i sistemi dittatoriali, proprio “la libertà di parola” è la prima cosa che viene negata ai cittadini, in quanto la “parola” ha il potere di “muovere” le coscienze, il pensiero, le intelligenze degli uomini. E se è vero che la parola ha racchiuso in sé tutto il senso, il contenuto, il peso di ciò che viene detto, è altrettanto vero che la parola esprime il suo senso solo se è “agita”. Ed è proprio in virtù del suo essere “agita” che la parola può risultare universalmente comprensibile, al di là del semplice “detto”, al di là di ogni fonema, al di là del segno, l’ “azione” della parola rimanda al “dire”, al nudo senso, all’espressione, all’autenticità della parola. Motivo per cui le parole “non agite”, rimarrebbero vuote e incomprensibili anche per chi parla quella stessa lingua. La parola “agita”, come dicevo, è la parola che è in movimento e che “muove” l’Altro, è la parola che “muove” colui che parla e colui che ascolta, il suo “senso” coincide anche con la sua “direzione”, essa è sempre rivolta a qualcuno, per qualcuno, verso qualcuno e in questo dirigersi verso qualcuno, la parola si compie, realizzando la sua vocazione originaria che è quella di esprimere, di portare alla luce, ciò che altrimenti rimarrebbe nascosto. Attraverso questa sua vocazione la parola ha il potere, nel senso positivo del termine, ossia è nella possibilità, di “formare”, plasmare, educare, ma anche consolare e guarire l’Altro. Il potere della parola è infinito, essa può distruggere, attraverso la calunnia e la menzogna, può ferire, può uccidere con l’inganno, ma può anche “salvare”! La parola che “forma” è una parola che “salva”, può essere la parola che ti “in-forma” di qualcosa, ad esempio come comportarti in determinate situazioni di pericolo o su come comportarsi per salvaguardare il futuro del nostro pianeta, può essere la parola che ti fa pensare a cose mai prima pensate, che ti fa riflettere, la parola può essere “promessa” che lega, oppure può essere la parola che consola e guarisce. La parola ha il potere di consolare l’afflitto, perché se è vero che esiste una sofferenza, una malattia del corpo, è altrettanto vero che esiste una sofferenza, un’afflizione, una malattia dell’anima o della mente, che nessun medico e nessun farmaco può consolare e guarire fino in fondo, solo la Parola autentica, nuda, profondamente e tragicamente umana ha in sé questa possibilità. Infine, la parola, nel suo essere sempre per qualcuno contempla sempre la possibilità della presenza dell’altro, esige che si sia insieme, presenti gli uni agli altri, ed è solo se c’è questa presenza viva che Essa compie la sua missione. Solo laddove e allorquando la Parola è tale, ovvero autentica e nuda, anche il silenzio che la interrompe ha il potere di “parlare”, di “dire”, di esprimere.
Se è vero che la parola ha in sé tutto questo potere, come si spiega dunque il supremo dominio dell’immagine nel mondo attuale? Ha forse l’immagine un potere simile o superiore alla parola? Può forse l’immagine formare, educare, plasmare, consolare, guarire, muovere il pensiero o l’anima altrui? E se è sì, può farlo nella stessa misura in cui lo farebbe la parola? Senza la pretesa di avere la risposta a tali questioni, si potrebbe forse solo aprire un’altra questione e cioè quella relativa alla sovrapposizione dell’immagine sulla parola, o per meglio dire il sopravvento dell’immagine sulla parola. Mi riferisco in particolare all’eccessiva esposizione dell’immagine di colui che parla sulla parola stessa, un’immagine talmente e volutamente esposta da “sminuire” e “oscurare” il senso e la forza delle parole stesse. Colui che parla, in altri termini, più, o prima, di essere ascoltato, vuole essere “visto”, vuole essere “riconosciuto”, nel senso più banale del termine, vuole diventare un Vip (very important person), a tal punto che le sue parole, seppur “sensate”, perdono di senso e di forza, perdona la forza di dare “forma” o di “muovere” qualcosa in qualcuno, perché la vista ha preso il sopravvento sull’udito, ciò che appare ha preso il sopravvento su ciò che dovrebbe essere ascoltato, colui che vuole apparire ha preso il sopravvento su ciò che vuole esprimere. Non si tratta di escludere l’una (l’immagine) per far vivere l’altra (la parola), non necessariamente, ma piuttosto di scegliere l’obiettivo da perseguire, se il proprio ego, e quindi in tal caso servirsi delle parole per far emergere la propria immagine, oppure l’Altro, e quindi dare priorità alla parola, che è sempre per l’Altro e comparire solo se necessario per essere testimoni della parola.
Patrizia Ferraro