“È una relazione virtuosa quella che ha legato per secoli la filosofia e la medicina in una sorellanza profonda, nutrita della benefica fusione dello sguardo teorico e della sapienza pratica, che si rivolgono all’uomo e alla sua esistenza per comprendere e avere cura.” Il legame tra l’arte medica e l’arte filosofica è la storia di una relazione complessa che ha nel concetto di cura il suo nucleo fondante a partire dalla nascita della medicina ippocatrica, di cui essa era l’origine e la ragione d’essere, fino all’epoca contemporanea in cui la tensione tra le due arti si è riaccesa per il rinnovato interesse sociale e non solo medico per il ruolo del paziente, considerato nella sua individualità e unicità personale. Pensare al concetto della cura implica necessariamente la domanda filosofica inerente la possibiltà effettiva di dare vita ad una individualizzazione dell’agire terapeutico all’interno dell’arte medica, non nei termini della strigente logica propria di un costrutto scientifico, ma attraverso un concreto atto di relazione pedagogica e formativa capace di trasformare la terapia in un gesto di perpetua umanità. G. Canguilhem nella sua opera, Il Normale e il patologico, distingue tre significati del concetto di malattia: l’essere malato, essere un soggetto sofferente e il fatto di avere una malattia, ossia di diventare oggetto dell’osservazione medica e scientifica. La metodologia clinica si esplica attraverso l’esame del corpo del paziente e l’ascolto della sua parola. Essa consiste nel comprendere l’esperienza soggettiva della malattia e nell’individuare scientificamente le sue cause oggettive. Il primato accordato all’individualità biologica e alla soggettività umana, la valorizzazione dell’aspetto clinico e teraupetico sono elementi necessari per affermare un ritorno dell’arte medica al suo originario: essere pratica di cura olistica e personale. É in questa ottica che la virtuosa relazione tra filosofia e medicina oggi si rinnova, ossia nell’esercizio del ri-pensare e ri-valutare prospettive di significato, linguaggi, metodi, in quell’arte originaria, che nel passato aveva reso le due discipline sorelle: l’arte della parola, del dialogare inteso come atto di relazione e di attenzione all’altro da sé, senza il quale nessuna cura sarebbe possibile. La cura è un atto di relazione empatica legato al concetto di qualità della vita. L’Organizzazione mondiale della sanità ha definito la qualità della vita come la percezione che l’individuo ha della propria posizione nell’esistenza, del contesto e della cultura, del sistema di valori dentro i quali egli vive e costruisce le sue aspettative, obiettivi e sfide. Il concetto di qualità di vita, catterizzato dall’elemento della soggettività personale, mette in luce l’aspetto dinamico del concetto di salute, che si configura quindi non come condizione statica ma al contrario come equilibrio dinamico legato all’elemento della percezione individuale, ossia all’elemento dell’imprescindibile umanità dei soggetti implicati nella relazione di cura. Fare riferimento alla centralità dell’elemento umano nell’azione di cura può apparire superfluo, dal momento che nel parlare di salute o di malattia è in realtà sottointeso il riferimento all’individuo sano o malato. Nella scienza medica è infatti necessario individuare l’elemento universale ed estrapolarlo dalla storia dei molteplici particolari. Senza quest’azione di pulizia e di chiarezza non sarebbe infatti possibile cogliere l’elemento dell’identico, la legge causale dei fatti, l’evidenza del dato e la certezza della teoria. Senza la certezza oggettiva e impersonale, non ci sarebbe conoscenza. Senza conoscenza non ci sarebbe cura. Accade così che ciò che in origine era evidente e vero, ossia l’elemento soggettivo, l’uomo, il sano, il malato, l’origine dell’azione di cura, diventi l’elemento nascosto, messo-sotto, non conosciuto e pertanto dimenticato. É dunque tra queste due terre di confine, quella dell’universale e quella del particolare, quella del certo e quella del vero, quella dell’identico oggettivo e quella del mutevole soggettivo, che si è consumato lo strappo nella relazione tra medicina e filosofia. É in questa terra di nessuno che il gesto umano della cura si è trasformato in un dialogo senza parole, in un sguardo senza orizzonti. É quindi da questo solco deserto che è necessario ripartire, nell’unico modo possibile, ossia attraverso il gesto filosofico per eccellenza: quello del domandare e dell’interrogare. Nel gesto del chiedere, lo sguardo si incrocia e ciò che era stato dimenticato, posto-sotto, celato viene nuovamente alla luce: la persona e la sua umanità.
Erika Ranfoni