(Immagine Luc e Jean-Pierre Dardenne)
LES ENFANTS
Corrono sempre da un posto all’altro, su e giù lungo strade del centro verso periferie anonime e viceversa, attraversando giardini abbandonati, sempre braccati, sempre di corsa… a piedi….. in bici o su scooter ai bordi di un fiume, di canali, ai bordi di tutto, per far quadrare i conti con la sopravvivenza e sempre con un mazzo di denaro in tasca che passa dalle loro mani ad altre, frutto di un traffico, di rapina, o persino di un omicidio, dei quali sono complici appena adolescenti e vittime loro stessi del grande raggiro che il mercato impone, confondendo i valori umani col valore di scambio, l’argent con gli uomini, e al quale non possono che aderire come merci senza pensarci, col fiato corto, infilati in un gioco adulto che li vuole comunque soccombenti.
Animali in trappola, questi sono i ragazzi, nel bene e nel male, visti così da vicino nel loro folle girovagare che ne percepiamo a malapena i profili dei primi piani sfuggenti, a volte ripresi di spalle, ma che riconosciamo nei rari e scarni dialoghi ai quali ci hanno da sempre abituati, e che insieme ai loro passi e respiri compongono la colonna sonora alle loro vite.
ESTETICA DELLO SGUARDO
Se in quei silenzi riusciamo a percepire tutte quelle parole che non possono o non sono in grado di dire, lo sguardo non ci tradisce. E così si viene risucchiati “appassionatamente” da quei corpi in movimento nelle loro storie, dritte all’imbocco del nostro stomaco, e che l’artificio cinematografico del pedinamento sempre più incollato, fa si che ci è difficile disapprovare né distanziarcene, anzi “vibrando” insieme a loro nella pena, dura e insopportabile, quanto umana.
Questa è l’arte dei maestri Luc e Jean-Pierre Dardenne, capaci ancora di provocare una vera esperienza umana, empatica, in un mondo che invece sembra avere abbandonato ogni possibilità di “condivisione” non strumentale, avendo questa terra dismesso il contesto sociale dove essa può avvenire (il lavoro e la sua dignità) e smarrito quello privato, dei sentimenti, delle relazioni affettive come l’amore e persino dei legami genitoriali .
Nulla però che riconduca a tematiche neorealistiche, così come netto è il rifiuto di toni melodrammatici o di indagini psicologiche, né ad una facile critica politica (non ce n’è bisogno) ma piuttosto narrazione dell’uomo e del suo destino dentro questo mondo unico e tutto fisico, opaco e assurdo, dal quale forse potere ripartire dopo averne provato la durezza dello scontro e l’inevitabile caduta.
Nello scambio simbolico che avviene già nei titoli dei film (Chi è il figlio? Chi è il padre?) avvertiamo tra i personaggi della narrazione quel ribaltamento di ruoli che rende ancor più difficile la costruzione identitaria dei giovani protagonisti, che, già dentro situazioni di estrema marginalità e di dolorose ingiustizie, si ritrovano ancor più lacerati all’interno dei propri sentimenti tra la volontà di esistere a tutti i costi (fino al tradimento della fiducia di chi è amico) e la paura di poter perdere tutto e scomparire nell’invisibilità.
IL VENTO SOFFIA DOVE VUOLE
(ETICA O REDENZIONE ?)
C’è da chiedersi allora se quel movimento vorticoso descritto dai Dardenne diventerà mai un movimento interiore che ne modifichi il percorso, ne motivi le traiettorie, manifestandosi si con parole nude ma capaci di indicare quel limite tra giusto ed ingiusto senza cadere nel pessimismo bressoniano* tra predestinazione e speranza, magari nell’attesa di una Grazia che come il vento soffia dove vuole…
In un’ottica pienamente laica, nelle quale invece si muovono i due cineasti, certamente il percorso da attraversare appare più difficoltoso, e la redenzione e il riscatto non è mai certo, né consolatorio.
Se domina la paura, sembrano dirci i registi, l’essere umano è ricondotto al solo istinto animale, dove la scelta e la responsabilità individuale scompaiono e allora “come ci poniamo di fronte al male? In che modo è possibile fare marcia indietro?E quali saranno le conseguenze di questa decisione?”
Proprio da qui invece si può ripartire, proprio da quel punto di non ritorno che è il momento della consapevolezza che fa collassare le precedenti azioni in cui si è rimasti coinvolti a danno di altri e che ora risultano insopportabili da accettare e perseguire. In un mondo così cruento ciò che scatta nei protagonisti di ciascuna narrazione non è opera di una conversione mistico-religiosa, ma piuttosto nel “senso di colpa, l’unico sentimento che ci consente di accedere all’umanità. Per colpevolezza intendiamo la responsabilità che gli altri ci richiedono per offrire loro un’opportunità nella vita”
Per questo non possiamo parlare di redenzione in senso stretto nei Dardenne, ma sicuramente di atto etico se per Etica si intende l’Altro prima dell’Io, l’Altro che ci pre-costituisce e ci determina.
Riuscire finalmente a pronunciare “c’est moi” come fa Bruno ne “L’enfant” addossandosi la colpa della rapina equivale a quel “eccomi” di Levinas, “sono qui e responsabile”, padrone delle mie azioni e finalmente posizionato nel mondo perché capace di provare l’amore per l’altro senza sentirsi spacciato, quell’amore che fa arrendere alla fiducia, ai sentimenti, al debito, insomma a tutto ciò che lega gli esseri umani e al quale possiamo “politicamente” dare il nome di speranza.
I PADRI
Ma dove sono i padri nelle storie di quegli adolescenti? E che fanno? Non ci sono, o quasi. A volte sono sullo sfondo e a malapena citati perché hanno abbandonato il loro ruolo, la casa d’origine, la famiglia e si sono dileguati. Se si fanno chiamare per nome è solo per garantirsi una qualche complicità dei figli, un cameratismo utile per condividere azioni discutibili se non spregevoli.
Se poi qualcuno li cerca testardamente arriverà al nodo doloroso: non sono più in grado di accudirti, non lo possono né vogliono fare, hanno una vita incasinata che vogliono rifarsi senza impicci, senza figli, delegando ad altri il compito delle loro funzioni di tutori .
“Evaporati” come i tempi che vivono, rinunciano al compito di tramandare la propria testimonianza che, per un bambino, rappresenta non solo la Norma che dà senso al limite indispensabile per muoversi nel mondo, ma è anche l’unica possibilità per aprirsi al Desiderio (che nasce proprio da quella interdizione) per diventare poi fiducia nell’avvenire e possibilità di amare.
Quella iperattività infantile in cui sembrano “affetti” i protagonisti dei Dardenne ne sancisce proprio la mancata trasmissione di quella testimonianza e la rinuncia al discorso educativo e persino al conflitto generazionale, a favore di un godimento senza legami (alla pari dei consumi) che non rende mai “liberi” ma orfani rabbiosi e risentiti del padre e pertanto sempre in bilico tra la malinconica idealizzazione della sua figura e l’incapacità di elaborarne definitivamente il lutto.
LE POSSIBILITA’
(“IL FIGLIO” )
L’amore è sempre amore del nome, “del nome proprio”, mai generico e universale (di tutti, della vita, del mondo); è dedizione e cura di un padre verso un figlio.
Cosa avviene allora se quel vincolo padre-figlio è distrutto da un altro adolescente omicida che, per uno scherzo del destino (e a sua insaputa), viene affidato per il successivo recupero post-detenzione proprio nella falegnameria del padre del ragazzino ucciso? Cosa succede tra i due e quale possibilità hanno di “incontrarsi” senza far scatenare l’inevitabile violenza o vendetta?
Nel film “Il figlio”, il più intenso della loro filmografia, i Dardenne sembrano porci queste domande mentre i protagonisti per uno strano meccanismo vengono attratti l’un l’altro e tentati a recuperare ciò che è stato perduto: il padre pur sconvolto e tormentato dalla presenza del giovane apprendista non vuole perdere anche questa relazione pur consapevole della impossibilità che si possa trasformare in legame; mentre nel giovane l’ammirazione per il padre-padrone sembra evolversi in una richiesta così forte di tutela da assumere i contorni di una domanda di paternità mai avuta.
Tra approcci e ripensamenti, nel rancore violento ma nascosto o nell’affetto di un legame comunque impossibile da realizzarsi e dove sarebbe più facile il rifiuto e inumano il perdono, i due cineasti ci indicano invece, che la loro volontà era riuscire a filmare una relazione possibile attraverso la capacità di un personaggio (Il figlio, il padre) a mettersi al posto di un altro, pur senza sostituirlo.
Questa è la vera sfida ed il tormento tra i due in tutto il film.
La possibilità che ciò avvenga e che i due si incontrino passa allora, come bene ci spiega F.Collins, non attraverso l’amore incondizionato tipico della filiazione ma solo attraverso la cura dei limiti che in questo caso consiste nella trasmissione del saper-fare, dell’apprendistato, che diversamente dalla Cura senza limiti (la paternità appunto) restituisce ad ognuno il suo ruolo: al padre la funzione dell’esempio per un figlio, e all’apprendista la tutela da parte del primo sebbene “condizionata” e mediata dal lavoro. Solo però partendo da questo patto tra i due, che non annulla né la colpa né il dolore, ci si potrà aprire ad una successiva e nuova forma di sollecitudine da parte del “padre” verso l’apprendista e ad una maturata consapevolezza, da parte del figlio, di avere finalmente trovato un posto nel mondo.
La MADRE (“Il ragazzo con la bicicletta”)
La primavera, la musica di sottofondo appena accennata e i colori vivaci che annunciano la stagione estiva, ammiccano a qualcosa di nuovo rispetto al grigiore dei precedenti film quasi a voler compensare attraverso suoni e colori la durezza dell’abbandono e la ricerca ostinata e affannosa del padre da parte del piccolo Cyril, l’ultimo personaggio dei Dardenne.
Anche qui la possibilità di una avvenuta salvezza passa attraverso uno scambio di ruoli.
E così la figura paterna tanto richiesta quanto latitante è sostituita dalla figura materna, o meglio da una donna che se ne assume tutto il carico di responsabilità del legame, gratuitamente, sacrificando persino il “suo legame” con un uomo, avvertito oramai secondario di fronte al nascere di un sentimento prorompente ed esclusivo dell’altro, che è pari alla maternità, e che non le lascia più scampo né altra possibilità di scelta, così forte è la richiesta d’amore.
In questo caso allora diremo che lo scambio simbolico ha buon fine e la sostituzione dei ruoli riesce a trasformare persino la tutela condizionata della semplice adozione in un atto d’amore reciproco e libero, e perciò incondizionato..
La rabbia che la protagonista di “Rosetta”(capolavoro dei Dardenne) prova per la madre, la sua ribellione verso quella figura che tace, alcolizzata, di fronte al degrado in cui si trova e alla quale la figlia cerca di porre freno in una guerra tutta sua dentro e fuori dalla roulotte dove vivono, forse ha trovato nella protagonista de “Il ragazzo con la bicicletta” quella figura tutta al femminile, capace proprio in quanto donna a diventare madre accogliendo tutta quella violenza e tutta quella solitudine di Cyril fino alla sua ri-nascita che ha del misterioso e insieme carnale, o forse del fiabesco se si vuole pensare che per svoltare repentinamente la propria esistenza sia solo opera delle fate o del diavolo, probabilmente.
Rolando Iaria
Testi: M. Recalcati “Cosa resta del padre?”
F. Collins “Limiti della cura, cura dei limiti. A proposito di Le Fils dei fratelli Dardenne”;
S. Gesù “Etica ed estetica dello sguardo. Il cinema dei fratelli Dardenne”;
Filmografia: da “La promesse”(1996) a “Il ragazzo con la bicicletta”(2011) di Luc e Jean-Pierre Dardenne;
Robert Bresson*: “Mouchette” (1967), “Il diavolo probabilmente”(1977) e “L’Argent”(1983).
C’è rimasto solo il cinema a raccontare la totale assenza genitoriale …
Grazie 😀
non c’è di che….