Leggo di una donna,
della sua passione orgogliosa.
Non sono rimasta uguale
alla donna di ieri, ho lasciato
spazio all’incoerenza e tempo
al disfarsi del luogo comune.
Il viaggio è troppo lungo,
l’ho scelto per i suoi giri oziosi
tra le campagne e le periferie.
Leggo, ma vedo il tuo volto
tra i segni che ormai
si dileguano al mio sguardo.
L’aria è grigia e tutto è avvolto
in un silenzioso distacco.
Terracina, 18 novembre 2012
Sottrarsi, per la durata di un viaggio, allo spazio e al tempo, sottrarsi per immergersi nella propria incoerenza e sgretolare l’immagine in cui, fino a poco prima, ci siamo lasciati inquadrare, perché ci rassicurava che, anche per noi, fosse possibile il riferimento alle categorie e al luogo comune. Sottrarsi alla prevedibilità degli eventi, fissati su una griglia sempre uguale in cui saltiamo da una casella all’altra sfiniti dalla mancanza di senso, ma accomodati nel frastuono che ci esula dalla ricerca dell’incontro. Sottrarci allo sguardo distratto e impietoso che fa presto a trovarci una collocazione per giustificarsi di averci dimenticato subito dopo.
A volte è necessario piegarsi alla sorte. La mia sorte ora è un viaggio, un breve viaggio, un tragitto per spostarmi da un luogo all’altro del mio vivere. Spostamenti frequenti, vissuti come necessari e inevitabili, nei quali mi adeguo a uno stato che non ho scelto, mi adatto senza protestare. Ma oggi è diverso, oggi scelgo un viaggio, troppo lungo secondo la considerazione che ci piega ad un uso produttivo del tempo, mi addentro nella mia sorte, la accolgo come parte profonda di me – la mia sorte sono io. E scelgo, scelgo di trasfigurare il viaggio in un ritiro al centro del sé.
Il viaggio è troppo lungo,
l’ho scelto per i suoi giri oziosi
tra le campagne e le periferie.
Lo sguardo si perde nel paesaggio anonimo che ripete i suoi moduli scolorati sotto un cielo autunnale di grigio pallore; la nebbia leggera che lo avvolge lo rapisce al mondo, alla sua corsa senza freni e senza meta. Pochi viaggiatori sul pullman. L’autista traccia percorsi tra campi, poderi e palazzi di periferia e sgrana un rosario di fermate quasi deserte. Adagiata al ronzio del motore lascio che il tempo del viaggio celebri il farsi del sé, il suo accadere e il suo riconoscimento.
E il riconoscimento avviene in un incontro: la donna che viaggia incontra la donna che narra.
“Quando, per la prima volta nella vita, si comprende veramente cos’è il destino, si acquista una specie di tranquillità. Si è calmi, e soli al mondo – di una solitudine così strana, terribile… “ [1]
Leggo di una donna,
della sua passione orgogliosa.
Non sono rimasta uguale
alla donna di ieri, ho lasciato
spazio all’incoerenza e tempo
al disfarsi del luogo comune.
Il discorso di Marika mi trascina come un fiume in piena: la bella e infelice moglie di Peter è preda del suo orgoglio, e io mi rammento che una volta questo atteggiamento era un segno distintivo del mio carattere. È passato molto tempo da allora. Quello che sono ora si invera di contro alle parole della raffinata borghese determinata a scoprire il segreto che le allontana il marito.
“Una voce, forte e chiara, mi diceva che non si poteva più andare avanti così, che nulla aveva più senso, che quella era una situazione umiliante, crudele, disumana. Dovevo mutarla, operare il prodigio. Nella vita ci sono momenti del genere, in cui si prova una sorta di vertigine e si vede tutto con assoluta lucidità: si riscoprono energie e potenzialità nascoste e si comprende perché si è stati troppo codardi o troppo deboli. E sono i momenti in cui la nostra vita cambia. Arrivano all’improvviso, come la morte o una conversione.” [2]
Ora sono la donna del tempo sospeso e posso finalmente prendere atto dello sgretolarsi della mia coerenza, di non dover essere più prevedibilmente uguale a quella di ieri, di poter essere altrimenti: nel tempo di sospensione creato dal viaggio non posso più essere inquadrata, sfuggo alle categorizzazioni, il luogo comune che pretende di definirmi e di categorizzarmi si sfalda. Nell’incontro con i segni della pagina si incarna il significato dell’incoerenza che libera e permette di essere e di vedere altro.
Leggo, ma vedo il tuo volto
tra i segni che ormai
si dileguano al mio sguardo.
L’amato, colui che corrisponde nei sensi e nello spirito alla verità e alla sacralità dell’umano, torna a farsi presente. Anch’egli può sottrarsi al piatto determinismo degli eventi e condividere lo spazio e il tempo della celebrazione. Il confessore parla a Marika con semplicità:
“Commettiamo sempre peccato quando non ci accontentiamo di quello che il mondo ci offre spontaneamente, di ciò che una persona ci dà per libera scelta, ed è sempre peccato tendere avidamente la mano per carpire il segreto di un altro. […] L’amore, quello vero è paziente, mia cara figliola. L’amore è infinito e sa attendere. […]”[3]
Un Amore è sempre stato nella nostra vita, ci attende da sempre, avvertiamo la lacerazione della sua mancanza e lo struggimento di una lontananza incolmabile che ci fa umani, ma ora siamo finalmente liberi di riconoscere che in quel legame si compie il nostro senso. Nel riconoscerci in questo amore ritroviamo la parte più vera e fragile di noi, quella che sa di aver bisogno dell’altro per poter esistere, quella che intuisce la libertà del farsi dono. L’intero essere è , allora, pervaso dalla rivelazione e il turbamento si stempera nel paesaggio che ha incorniciato e gelosamente custodito il farsi del Sé; ora, come un muro di cinta, esso protegge il nostro intimo sentire e ci avverte che il tempo della celebrazione si approssima alla fine: stiamo per lasciare il non-luogo in cui il significato profondo della nostra incoerenza si è manifestato.
L’aria è grigia e tutto è avvolto
in un silenzioso distacco.
Cristina Polli
Scritto tra i luoghi del mio vivere, nelle incertezze atmosferiche ed esistenziali degli ultimi giorni del maggio 2013.
[1] Sándor Márai, La donna giusta, Adelphi 2004, pag. 44,45.
[2] Op.cit. pag. 51
[3] Op .cit. pag. 59