Cosa ha a che vedere la fotografia con la politica dell’accoglienza, con la conoscenza, con l’abitudine al diverso da sé ? La vulgata dice che siamo un paese di poeti, santi, navigatori e, aggiungo, non abbiamo inventato noi la fotografia. Siamo il paese di Dante e del Rinascimento, della pittura e della scultura, ma la cultura italiana, le istituzioni ad esse deputate e l’editoria non tengono in alcuna considerazione l’importanza della fotografia. In Francia è protetta come la pittura e/o la scultura, qui da noi è spesso e soltanto un pezzo di carta ed il fotografo per meglio che vada è considerato un artista. Azzardo delle ipotesi. La fotografia di reportage, il racconto fotografico ha molto a che vedere con la curiosità, con il viaggio, con la voglia di entrare in contatto con popolazioni, usi, costumi diversi dai propri. Questo atteggiamento di apertura, questa disponibilità al cambiamento della propria centralità culturale di fatto ha in sé il rischio della contaminazione e quindi del cambiamento: se si pensa che altre abitudini, altri modi di vita siano validi tanto quanto i nostri ci si deve porre come osservatori e narratori degli altri. Conrad, London, Melville. Kipling per citare solo i più grandi cosa erano se non dei grandi scrittori di un mondo a loro estraneo ma che per motivi storici (le colonie ad esempio) erano a loro contigui? L’ impero Britannico, la nascita degli Stati Uniti e l’espandersi della frontiera: tutti elementi fondanti, oggettivi, che ti costringevano a viaggiare e a guardare in faccia lo straniero, che fosse il nativo americano da assoggettare o l’indiano dei dominion britannici: Una letteratura che trova il nutrimento dalle trasformazioni di un paese. E che dire di Mark Twain, indefesso viaggiatore? Era nato in Florida, cresciuto nel Missouri, ha vissuto in California e poi in Connecticut, nella sua vita ha guidato battelli lungo il Mississipi, viaggiato in Inghilterra Francia ed Italia. Mi chiedo ad esempio quanti viaggi nella loro vita abbiano fatto, Leopardi o Pascoli. Montale non credo sia arrivato più in la di delle esotiche 5 Terre. Che c’entra tutto questo con la fotografia? C’ entra perché penso che l’importanza della diversità culturale apre le porte all’utilizzo di un mezzo del genere, ne intuisce l’importanza narrativa, pratica, documentaria. Banalmente cosa fa il turista dei giorni nostri se non riportarsi a casa pezzi di viaggio e ricordi fissati su un foglio di carta? La nostra letteratura ha quasi sempre avuto come tema le emozioni, i patemi d’animo dell’uomo davanti al progresso, lo spavento della modernità, la solitudine, con tutto quel che porta dietro di indagini psicologiche; per far questo non c’è bisogno di muoversi da casa. Bisognerà aspettare Verga e la letteratura meridionalistica che cercherà di raccontare la nostra frontiera. Dunque l’Io al centro. D’altronde 300 anni di Controriforma, di inquisizione, di tabula rasa di qualsiasi speculazione scientifica, l’arresto di Galileo e il rogo di Giordano Bruno, volete che non abbiano in qualche modo influito sul correre della Cultura italiana? Cartesio era francese, Spinoza un ebreo riparato nell’Olanda del 600, e Kant non é nato a Milano. E la rivoluzione industriale non ha albergato dalle nostre parti. E la fotografia è figlia della chimica, della rivoluzione industriale e della curiosità: ti espone immediatamente, ti costringe a sporcarti le mani per raccontare, non puoi farlo nel chiuso di una stanza. Devi andare, metterti in ballo, guardare, rischiare. Diventi permeabile, disposto al cambiamento e a registrare quel che per strada troverai. Devi essere un viaggiatore. All’ Italia degli anni trenta non sarebbe venuto mai in mente di mandare per le campagne decine di fotoreporter affinché “riportassero” con le loro immagini gli effetti della crisi del 29 e quindi dare elementi al governo per capire come migliorare le condizioni delle masse rurali americane. La Farm Security Administration voluta dal presidente Roosevelt nel 27 questo fece, con l’impiego di molti grandi fotografi che collaborarono al progetto. I negativi sono attualmente conservati presso la Library of Congress a Washington D.C, tanto per rimarcare l’importanza della memoria visuale nella storia di un paese. Qui da noi vince il particolare sull’universale, il proprio campanile piuttosto che conoscere gli altri campanili, perché comunque il “nostro” è il più bello e tanto basta. É anche per questo secondo me che non abbiamo una letteratura di viaggio: non solo perché in fin dei conti non abbiamo avuto “territori d’oltremare” ma perché in realtà degli altri poco e niente ci interessa. Dunque il vero viaggiatore del 20° secolo è il fotoreporter. È l’essere curioso che rimbalza in tutti gli angoli oscuri e misteriosi della terra a portare un po’ di luce e conoscenza. Restando più vicino, non so quanti scrittori si siano adoperati a vivere in un campo nomadi per poterne raccontare la vita; di certo molti fotografi questa esperienza l’hanno provata. La cultura italiana e, segnatamente, l’editoria è sempre stata come minimo sbadata nei confronti di questa disciplina proprio per le ragioni che abbiamo tentato di analizzare precedentemente. Torniamo quindi ai giorni nostri, o quantomeno agli ultimi trent’anni: io non credo che la stampa italiana abbia sottovalutato le potenzialità del racconto fotografico, penso invece che l’abbia volutamente snobbata per quello che gli americani chiamano “Hubris” cioè arroganza: della parola scritta nei confronti dell’immagine. Certo dobbiamo ricordare i tempi d’oro del Mondo, del “primo” Espresso o di Epoca degli anni sessanta che scimmiottava il successo della rivista Life e dei sui grandi reporter. Era il periodo del boom economico, di un’Italia che si risollevava con grande slancio dalle rovine della guerra e che si offriva a noi dalle pagine dei rotocalchi. Quell’ Italia bisognava raccontarla e altro mezzo non c’era. Poi è arrivata la televisione e ci si è illusi che questa potesse svolgere meglio il ruolo di narratore visivo: con quest’ultima sappiano come sia andata a finire mentre la fotografia nei giornali è sempre più stata relegata a ruoli “esornativi” come disse una volta Eugenio Scalfari, di illustrazione, come si può dire di un quadro per abbellire il salotto di casa. Ad onor del vero la stampa italiana è sempre stata funzionale alle cose della politica, per cui molte facce di personaggi e sempre meno Italia (e mondo) da raccontare. Ricordo il periodo della guerra nel Kosovo: eravamo tutti li noi “giovani fotoreporter” con la voglia di raccontare, con il nostro paese in guerra e gli aerei che partivano dalle basi italiane a bombardare la Serbia e l’esercito Serbo: a parte lo sconveniente episodio della prima guerra in Iraq, questa era la prima volta che l’Italia schierava le proprie forze dopo il 1945: nessun giornale si prese allora la briga di dire a qualcuno di noi: “ voglio che tu copra per le nostre pagine quegli avvenimenti.” Per L’ Italia eravamo assolutamente residuali. In quell’occasione il mio assignement lo ho avuto da Stern (per gli stessi e molto più eclatanti motivi: la Germania in guerra per la prima volta dal ‘45). Più o meno nello stesso periodo Time e Newsweek mettevano sotto contratto il meglio dei reporter di guerra solo per evitare di uscire su avvenimenti salienti della politica internazionale con foto simili tratte dalle agenzie di stampa. Ritenevano quindi il fotoreporter un valore aggiunto, un modo per fare concorrenza e guadagnare lettori. In Italia non è così ed il paradosso è che la qualità del reportage fotografico italiano è eccellente, siamo tra i primi al mondo, maciniamo riconoscimenti internazionali, borse di studio, concorsi, lavoriamo per importantissime testate estere, siamo rappresentati da importantissime agenzie straniere ma le redazioni italiane spesso neanche rispondono alle nostre proposte. Nemo profeta in Patria.
D’ altronde non si fugge dalle nostre università per approdare all’estero per gli stessi motivi?
Marco Vacca