Avevo scritto i versi a seguire più di un anno fa, quando la stanchezza era, da tempo, assidua e incompresa compagna delle mie giornate. Ora, nei mutamenti che si sono susseguiti negli ultimi anni – dapprima giorni, poi mesi e poi anni senza che me ne avvedessi – spossatezza e sfinimento si sono ricomposti in nuove forme della mia esperienza e hanno aperto varchi profondi e inconsueti che corredano gli eventi di significati inattesi.
Sisifo.
Noi, Sisifo assorto in trasporti di pietre
meditiamo
dolore
e ritardiamo l’Incontro.
Spostiamo macerie
che franano sull’io
sulle membra consunte,
sull’anima dissolta. Assorta
fatica s’attiene
al rovinare del tempo,
al diroccare del senso.
Noi, Sisifo assorto
meditiamo
dolore,
stanchezza che plasma il senso,
surrogato di pensiero,
barricata all’Incontro.
Terracina, 26 agosto 2012
Condanna e seduzione.
La condanna del genere umano alla stanchezza è narrata nei miti, che siano quello di Sisifo[1] o quello della cacciata dall’Eden[2], ed essa viene generalmente percepita come portato inevitabile del vivere. Nel corso dei secoli e dei millenni l’uomo si è riferito a questa esperienza delineando, a seconda delle cause per cui viene esperita, confini che hanno separato e separano i gruppi umani, e l’ha connotata di richiami emotivi e significati psicologici, fino a sperimentarne la seduzione.
La stanchezza è un filtro che modifica le nostre esperienze: portata ai limiti della sostenibilità, nelle sue varie declinazioni, può avere le ripercussioni più diverse. Handke nel suo Saggio sulla stanchezza[3] ci fa partecipi di immagini che la ritraggono nelle sue varie funzioni: dal renderci monadi chiuse in sé, prigioniere in un orizzonte di routine in cui si svilisce ogni desiderio di cambiamento e di partecipazione alla vita in qualunque sua forma, fino all’abbandono del sé, per raggiungere l’unità con l’altro e con il mondo e l’epifania dell’epos del mondo.
Incandescenze e corto circuiti.
In un saggio di diverso tenore, Byung-Chul Han, adottando il paradigma neuronale per spiegare le disfunzioni della società odierna, ci definisce La società della stanchezza[4]. Le stanchezze nervose, i corti circuiti mentali ed emotivi, marcano l’odierna condizione umana. Su queste nuove stanchezze intendo aprire spunti di riflessione nelle righe che seguono, nuove stanchezze che ci vincolano, talora ci paralizzano, ma comunque segnano le nostre esistenze allontanandoci dall’accesso all’essenziale; nuove stanchezze in cui ci rifugiamo e che, talora, scegliamo per elezione.
Che il paradigma usato da Byung-Chul Han renda conto di un cambiamento epocale ce ne avvediamo ritornando a leggere Handke. L’autore austriaco esprime il suo biasimo per coloro che procedono eternamente arzilli e per la loro progenie, “… i quali stanno già provvedendo a addestrare a pattuglie d’esplorazione anche i nipoti…”[5] . A costoro manca la stanchezza che accomuna chi condivide le fatiche e i frutti di un lavoro utile, del lavoro manuale e ben coordinato dei contadini durante la trebbiatura, o delle squadre di carpentieri che costruiscono tetti.
È facile associare gli “inveterati (sic) criminali” agli yuppies e alle schiere dei loro discepoli, ma gli eccessi a cui si sono, dapprima volontariamente e poi forzosamente, sottoposti hanno cambiato la polarizzazione della loro condizione socio- lavorativa, se non quella della percezione del sé. Situati all’incrocio tra aspirazioni edonistiche e distorsioni dell’imperativo kantiano, costoro hanno iniziato procedendo solerti e zelanti verso l’incremento della produzione e la loro incandescente soddisfazione, ma hanno finito per andare incontro al corto circuito, che deflagra in un istante le fiamme in cui bruciano le loro facoltà intellettive ed emotive da lungo tempo arroventate. Il rischio è diventare prede di apatie derivate da una stanchezza indicibile, apatie che devono essere taciute pena la stigmatizzazione sociale e l’attacco di altri predatori.
Terra e parole.
Mai come ora, siamo sollecitati alla crescita, allo sviluppo delle potenzialità, al cambiamento. La stanchezza, in una società che gratifica la produzione ipertrofica, è una debolezza da negare: siamo nell’epoca del “Yes, we can!”, motto che attraversa la nostra disposizione verso il mondo qualificandoci come homo faber.
Oltre ad essere sollecitati ad un fare incessante, il nostro raggio d’azione si estende ancorandosi alle ramificazioni create dal world wide web, e gli echi delle nostre comunicazioni si propagano nella rete.
La relazione tra l’uomo e il mondo viene definita, quindi, attraverso l’azione: ritorna l’eroe della frontiera, l’eroe che esplora territori e ne stravolge forma e ed equilibri per piegarli alle sue esigenze. Ma non ci sono più territori da esplorare in assoluto; ci sono, invece, territori di cui parlare, luoghi su cui operare interventi tramite il discorso.
Nonostante alla nostra natura di homo faber si addica un uso pragmatico del linguaggio, esso, nella rete, non è unicamente pragmatico ma anche rappresentativo (nel senso che “sta in luogo di”, in luogo dell’azione appunto) e iconografico, in quanto crea una esposizione mediatica che, veicolando significati arbitrari ottenuti associando le suggestioni delle immagini a frasi evocative e a sollecitazioni, determina parametri di riferimento, spesso giocati su facili empatie. Le parole rimbalzano nelle reti, acquistando o perdendo la loro efficacia a seconda dei contesti e delle comunità che le usano, le riusano, le modificano, le associano, le destrutturano, le ristrutturano e, infine, le sfibrano.
Presi nella rete – persi nella rete.
La frequenza e l’incremento di parole e discorsi sovraccaricano la rete, sviluppano miliardi di sinapsi e propagano sistemi in cui ognuno di noi si trova irretito, esperendo, al di là della superficiale ebbrezza per la illusoria percezione di una amplificazione delle possibilità di azione, una difficoltà crescente di riconoscimento e determinazione della propria identità e del proprio ruolo, che proprio nell’azione acquisiscono riconoscibilità.
Nella rete facciamo esperienza di uno snervamento, un logoramento che ci intrappola e ci disorienta: siamo per natura sollecitati a rispondere, ma si insinua in noi una percezione di inefficacia, al meglio di blanda inutilità. L’insoddisfazione può condurci alla resa: ad una indifferenza che ci protegge dalla percezione di essere vani e sostituibili nella pletora di voci che quotidianamente esibiscono le loro verità nella rete. Essa può altresì provocare l’insorgere di un intorpidimento della coscienza, che ci alletta a gratificare la morale con poco sforzo. La stanchezza, allora, si riflette anche nei linguaggi, si manifesta nella banalizzazione dei termini e nella ripetitività dei discorsi, e, nel limitato novero di azioni possibili nella rete, si riproduce in atti che diffondono contenuti in maniera meccanica, con la possibilità di sottrarci alla fatica della conoscenza e all’approccio critico.
La capacità di riflettere e di adottare un atteggiamento critico esiste e trova modo di manifestarsi, ma lotta contro la ridondanza di un pensiero mediocre, qualificato da una sorta di inabilità a proseguire oltre la superficie delle cose. La ricerca spasmodica della soddisfazione edonistica rende ipertrofica la necessità di soddisfare vari tipi di bisogni al di là di quanto sia naturale ed equilibrato: ci troviamo immersi in pressanti sollecitazioni al cambiamento, che ci lusingano promettendoci soddisfazioni inarrivabili e risultati efficaci di azioni e comportamenti efficienti. In realtà ciò che si produce sono solo nuove stanchezze, generate per incongruenza con le nostre reali aspirazioni e per la forzatura che consegue all’operare senza aver potuto dedicare tempo alla scelta.
La scelta è, credo, la chiave che ci può consentire di liberarci di queste nuove stanchezze, che sviliscono la nostra vocazione di esseri umani chiamati a tendere ad una espressione compiuta del sé.
Se alcune delle stanchezze su cui si sofferma Handke nel suo saggio appaiono desiderabili, è perché esse rappresentano l’approdo di una coscienza creatrice purificata in cui
“… il mondo, in silenzio, assolutamente senza parole, si racconta da sé, a me come al vicino spettatore dai capelli grigi lì, alla splendida donna che passa ancheggiando là; tutto il pacifico accadere era al contempo già racconto… “[6]
La scelta, quindi, non è liberarsi dalla stanchezza o rifiutarla, ma essere consapevoli del suo ruolo. Essa attribuisce un segno diverso alle nostre esperienze rivelandoci la fragilità della nostra condizione, ma allo stesso tempo ci svela che l’incontro con l’Altro è possibile se sappiamo vedere la nostra incompiutezza. Emancipandoci dall’obbligo del poter-fare, caratteristico di chi si percepisce potente e rischia poi di trovarsi in un dover-fare usurante, la comprensione del senso della stanchezza ci consente di assegnare valore all’incontro come espressione di noi stessi: non acquistiamo significato per quello che facciamo, ma per aver cercato e accettato un incontro che, nel momento in cui avviene, ci cambia.
Cristina Polli
[1] Sisifo viene punito da Zeus per aver osato sfidare gli dei con la sua sagacia. Egli dovrà spingere un masso dalla base alla cima di un monte, ma, una volta raggiunta la vetta, il masso rotolerà giù costringendolo a una eterna ripetizione di questa vana e inane fatica.
[2] Adamo ed Eva vengono cacciati dall’Eden per aver disobbedito a Dio: essi, sedotti dal Demonio, hanno mangiato il frutto proibito che, a detta di costui, li avrebbe resi simili a Dio consentendo loro di accedere alla conoscenza.
[3] Edizione consultata: Peter Handke, Saggio sulla stanchezza, Garzanti – Gli elefanti, 2000, traduzione di Emilio Picco, postfazione di Rolando Zorzi.
[4] Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, 2012
[5] Op. cit. pag. 22
[6] Op. cit. pag. 38